Stato&Mercato

L'economia del "Fatto Quotidiano". Il blog di Stefano Feltri

Crisi: è davvero il momento della “fase due”?

Renato Brunetta annucia la "fase due" nella risposta alla crisi

Renato Brunetta annucia la "fase due" nella risposta alla crisi

Dopo mesi in cui il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha ripetuto che ormai la crisi economica è soltanto un problema di scarsa fiducia, ieri il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha annunciato: «Una volta approvata la Finanziaria, inizieremo a ragionare su come passare alla fase due, su come passare cioè dalla fase difensiva a quella dell’espansione e della stimolazione dell’economia».

Secondo Brunetta, che ha sempre rappresentato l’anima meno catastrofista dell’esecutivo, il peggio è passato e quindi è il momento di iniziare a pensare al dopo-crisi. L’espressione, “fase due“, è la stessa che si usava ai tempi del Governo Prodi, quando si dibatteva se il centrosinistra dovesse prima risanare i conti pubblici («fase uno») e poi fare le riforme strutturali o agire al contempo su entrambi i temi. Poi sono arrivate le elezioni anticipate che hanno impedito di realizzate la fase due. E, stando ai “si dice” degli ultimi giorni, la stessa eventualità potrebbe forse ripetersi anche questa volta, se davvero qualcuno nella maggioranza avesse interesse a votare a marzo 2010.
Stando ai dati di fatto, però, si nota come il governo si stia comportando su più tavoli come se la crisi fosse davvero finita. La Lega di Umberto Bossi continua a sollecitare l’introduzione di gabbie salariali, indicando nella riduzione delle differenze di potere d’acquisto una delle priorità dell’azione dell’esecutivo (cioè una misura strutturale, non di emergenza). Nell’ultimo consiglio dei ministri, venerdì, anche la decisione di modificare la normativa sull’offerta pubblica d’acquisto è stata presentata come un segnale di ritorno alla normalità: visto che la Borsa si è ripresa, dice il Governo, non è più necessario mantenere le barriere straordinarie costruite intorno alle aziende di interesse strategico per evitare che cadessero in mani straniere. In realtà la questione è più delicata, le modifiche saranno operative dal luglio 2010 e comportano un grado di discrezionalità per la Consob di cui è difficile valutare ad oggi le conseguenze. Brunetta – che ha sempre definito il sistema di ammortizzatori sociali italiano «il migliore del mondo» – rivendica la decisione di non detassare le tredicesime lo scorso anno, lasciando però intendere che si preparano nuove misure di stimolo e aggiungendo che, comunque, «la fase uno ci vede promossi».

Della «fase uno», però, si osservano alcuni strascichi: Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat, ha chiesto nuovi incentivi all’acquisto di automobili per sostenere il settore, esattamente come un anno fa. I sindacati denunciano i buchi nella rete degli ammortizzatori sociali, mentre le cronache registrano nuovi casi di proteste di chi rischia di perdere il lavoro. A Porta a Porta, pochi giorni fa, Berlusconi ha rivendicato di aver stanziato 34 miliardi di euro «per garantire chiunque perda un posto di lavoro di essere aiutato dallo Stato». Ma dal Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria), anche con i calcoli più generosi, secondo l’analisi degli economisti della voce.info risulta che si tratta di circa 15 miliardi, ma distribuiti in quattro anni. E dei 5,35 miliardi per ammortizzatori in deroga, quindi vere misure straordinarie, ne sono stati versati solo 825. Finora Giulio Tremonti è stato il più prudente nel dichiarare chiusa la «fase uno»: pur sostenendo, come il resto del governo che l’Italia sta meglio di altri Paesi europei (tesi che si fonda su pochissimi dati), ha riconosciuto venerdì che «siamo ancora in terra incognita, abbiamo evitato la catastrofe ma le difficoltà non sono ancora terminate». E lo dimostrano i dati macroeconomici: l’Italia non ha ancora evitato il tracollo del Pil, quella riduzione del sei per cento che secondo l’Istat è il dato tendenziale (che si ottiene, cioè, proiettando la velocità di caduta dei primi sei mesi sul resto dell’anno). Anche nel migliore dei casi, ha ribadito la Commissione europea, la riduzione sarà del cinque per cento. Il superindice dell’Ocse, molto citato dal Governo, si è limitato a segnalare che c’è un’alta probabilità che per l’Italia si verifichi un’inversione di tendenza nei prossimi sei mesi, cioè che l’economia smette di scendere. Ma nulla ha detto su quanto possa essere intensa la ripresa. Gli effetti – preannunciati da mesi – sulla disoccupazione d’autunno ancora non si sono manifestati, almeno nelle statistiche, anche se hanno determinato una ritrovata sintonia tra la Confindustria e il sindacato della Cgil. Ma è troppo presto per dire che il temuto autunno caldo sia stato evitato.

Come dimostra l’utlimo sondaggio di Ipr marketing per Repubblica, il governo ha perso dieci punti di popolarità nel corso di un anno. E se davvero qualche esponente dell’esecutivo pensa che ci sia il rischio di andare alle elezioni in primavera, la «fase due» in cui la spesa pubblica entra in una fase espansiva potrebbe rivelarsi una necessità elettorale, più che la conseguenza dell’evoluzione della congiuntura.

20/09/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , , , , , , , , , , , | 1 commento

Sgomberare la scrivania

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Alla fine è arrivato il momento di sgomberare la scrivania, di infilare gli ultimi libri in una busta dell’Ikea e nello zaino del G8 che avevo dimenticato in redazione, di buttare montagne di appunti di articoli che non ricordo nemmeno di aver scritto, di chiamare un taxi e andare a casa.

Dopo un anno si chiude qui la mia esperienza al Riformista, con un pezzo sulla “fase due” del Governo, meglio questo che congedarsi con il pezzo su Rocco Siffredi. Da lunedì si ricomincia, al Fatto Quotidiano, per la terza volta in poco più di dodici mesi, un’altra redazione, altri colleghi, un altro stile, un’altra cultura giornalistica e un giornale tutto da costruire. Tra poco spegnerò per l’ultima volta il computer del Riformista, consegnerò i badge e la prossima volta che vorrò entrare dovrò suonare il campanello.

Dopo un anno e qualche centinaio di pezzi (sono arrivato a 500? Chissà…) me ne vado. Il presidente della società editrice, Roberto Crespi, mi ha detto qualche giorno fa una cosa giusta: in certe occasioni è meglio mettere per iscritto quello che a voce rischia di essere deformato dal ricordo e cancellato dal passare del tempo. Quindi ne approfitto anche qui per ricordare le persone con cui ho condiviso quest’anno, faticoso ma fondamentale, e che adesso lascio, senza rimpianti ma un po’ a malincuore.

Il primo è Marco Ferrante, che mi ha dato la possibilità di diventare un giornalista, scommettendo su di me con pochissime ragioni per farlo. Abbiamo lavorato bene insieme, anche se con idee diverse su moltissimi argomenti, e – comunque vadano le cose in futuro – resterà la persona a cui debbo di più, sia per le occasioni che mi ha dato che per quello che, non sempre consapevolmente, mi ha insegnato. Poi il direttore, Antonio Polito, che mi ha dato spazio e fiducia, lasciandomi sempre libero di scrivere quello che pensavo. E infine Gianmaria Pica, l’altra metà della fanteria economica, con cui abbiamo modificato centinaia di pagine, inserito migliaia di foto, mangiato qualche decina di panini kosher e scritto milioni di battute. Poi ci sono tutti gli altri, ma non avrebbe senso elencarli qui in blocco. In privato ho già manifestato affetto e stima a chi ritenevo giusto manifestarle.

Bene, anche questa è andata. Grazie a tutti. 

Un bel respiro e si riparte. Da qui:

antefatto

19/09/2009 Posted by | Articoli, Il Fatto Quotidiano, Il Riformista | , , , , | Lascia un commento

Il testimonial dello scudo fiscale

 
Hard News. Il pornoattore nel mirino della guardia di finanza per la sua residenza in Ungheria che gli avrebbe permesso di sottrarre al fisco italiano 200mila euro. Ha una casa a Roma ma produce film a Budapest, si sente di sinistra ma vede in Berlusconi uno spirito affine, perché «è un uomo vero».
Rocco Siffredi

Rocco Siffredi

Dopo Valentino Rossi, un altro simbolo dell’italianità all’estero si trova a diventare – controvoglia – testimonial della lotta all’evasione fiscale. Si è saputo ieri che l’attore porno Rocco Siffredi è sotto indagine da parte della guardia di finanza di Chieti, la sua città di origine. Il colonnello Gioacchino Angeloni, che ha fatto partire gli accertamenti, sospetta che la residenza di Siffredi in Ungheria sia solo un modo di aggirare il fisco italiano, a cui avrebbe sottratto almeno 200mila euro. «Negli anni novanta il fisco ungherese aveva maglie larghissime, ma di anno in anno si è fatto più attento. Si riesce comunque ad avere una migliore gestione fiscale qui che in Italia: l’aliquota massima sui redditi personali è del 36 per cento, sulle società del 16 più un quattro per cento di contributo di solidarietà», spiega Alessandro Farina, che da quindici anni lavora in Ungheria con lo studio di consulenza Itl group.

Rocco Antonio Tano, Siffredi in arte, ha 45 anni e da oltre un quarto di secolo si dedica ai film per adulti, è diventato una celebrità con qualche occasionale escursione fuori dal suo genere, come il censurato spot delle patatine Amica Chips. Nel 1997 spiegava: «Un attore di film hard guadagna dai 500 ai 1000 dollari al giorno e un film può durare al massimo una settimana. Io lavoravo 25 giorni al mese e facevo circa 150 film all’anno, adesso ne farò 4 o 5, quando me lo chiede un amico». Da quando poi si è messo a fare il regista e il produttore, ha cominciato a girare solo all’estero, soprattutto in Ungheria, dove ingaggiare le attrici costa circa 200 euro al giorno e un film si produce con 5mila euro, invece che i 25 mila che costerebbe in Italia. Il patrimonio di un attore che nel suo settore è una star di primo livello e – come ci tiene a ricordare – un premio Oscar (di categoria), richiede una gestione attenta.

Nel 1993 ha creato la Rocco Siffredi Production srl, con un capitale sociale di 20 milioni di lire. Nel settembre del 1995 acquista la misteriosa Quattrocchi, una società a responsabilità limitata con sede a Roma. Dopo due anni la rivende, e nei documenti societari della Quattrocchi resta traccia di un passaggio di quote della Rocco Siffredi Produzioni srl da Rocco e Gennaro Tano al fiscalista Vittorio Gobbi e all’impiegato Gian Luca Fonzi. La Quattrocchi è una società di consulenza per pratiche amministrative e rapporti di lavoro, ma interpellata dal Riformista rifiuta di spiegare quali siano i suoi rapporti attuali con Rocco Siffredi, nega perfino di conoscere i due titolari, Gobbi e Fonzi. Quanto a Gennaro Tano, si tratta del padre di Rocco, classe 1924, da sempre suo socio in affari con quote minoritarie e azionista della Mariage srl, altra società che si occupa di oggettistica e servizi di complemento ai film di Siffredi. Dal 1991 Rocco ha una moglie, che in Italia si fa chiamare Rosa Caracciolo, vero nome Rosza Tassi, un’ex miss Ungheria, di 39 anni, collega che ha condiviso alcuni set con il marito, come “Rock and Roll Rocco” e “Rocco’s Top Model”. Dal 2005 abitano a Roma, in una villa sull’Aurelia che, secondo la guardia di finanza, è intestata a una società di comodo britannica ma è in realtà la loro vera residenza.

I finanzieri sono pronti a ricorrere anche ai tabulati telefonici per dimostrare che Rocco e Rosa (oltre ai figli Lorenzo e Leonardo) passano lì più dei sei mesi all’anno che li obbligano a comportarsi da contribuenti italiani, nonostante la residenza formale in Ungheria. L’attenzione della finanza rischia di impedire a Siffredi di ricorrere – nel caso volesse farlo – allo scudo fiscale offerto dal 15 settembre dal ministero dell’Economia a chi vuole rimpatriare capitali sottratti al fisco pagando il 5 per cento della somma. Finora non poteva aderire chi ha procedimenti aperti con l’agenzia delle entrate (cioè chi è stato scoperto), ma è ancora da capire quanto verrà recepito dell’emendamento del deputato Salvo Fleres (Pdl) che sta provando a estendere lo scudo a tutti trasformandolo, accusa il Pd, in un condono tombale.

Rocco Siffredi non ha mai votato, ma ha confessato, in un’intervista a Libero, di sentirsi a sinistra e di comportarsi però come uno di destra. Quando ha ricevuto la giornalista Barbara Romano nella sua abitazione romana ha parlato molto anche di Silvio Berlusconi: «È un vero amatore. Mi ha sempre dato l’impressione di uno che c’ha il chiodo fisso un po’ come me, solo che io ne ho fatto un lavoro e lui un divertimento». Poi approfondisce l’analogia: «Io ho sempre pensato che la persona che avrebbe potuto sostituirmi è Silvio Berlusconi. Il “Rocco Siffredi” della situazione avrebbe potuto tranquillamente essere lui, perché è un uomo vero». Era il 21 dicembre 2008, cinque mesi prima che il presidente del Consiglio andasse alla festa della diciottenne Noemi Letizia, che Veronica Lario gli chiedesse il divorzio e che diventassero noti i dettagli delle feste a palazzo Grazioli.

18/09/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

L’inizio della fine del berlusconismo? No.

zapping. Il professor Siliato analizza i dati Auditel. Mediaset festeggia, ma Sky fa causa contro l’impossibilità di pubblicizzare le proprie offerte sulle reti del Cavaliere. Tensione in Rai per il cda su AnnoZero.

PORTAPORTA

Il sorpasso della fiction di Canale 5 con Gabriel Garko sullo speciale di Porta a Porta con Silvio Berlusconi è già un caso politico. Antonio Di Pietro (Idv) se la prende con il conduttore Bruno Vespa – «boia» dell’informazione pubblica – il presidente di garanzia della Rai Paolo Garimberti difende il diritto della Rai a criticare il governo (in polemica on Berlusconi) e, dopo aver espresso solidarità a Vespa martedì, ieri l’ha manifestata a Ballarò, Report e AnnoZero. La commissione di Vigilanza sulla Rai, presieduta da Sergio Zavoli, ha confermato l’audizione del direttore generale Mauro Masi per il 23 settembre, per parlare di bilancio ma anche dei programmi, come Zavoli ci ha tenuto a precisare ieri. E il sindacato dei dipendenti, l’Usigrai, ieri sera si è incontrato alle 21 per preparare gli striscioni da esibire alla manifestazione di sabato a Roma: “Diritto di sapere, dovere di informare”.

Il programma di Bruno Vespa ha avuto nel complesso uno share di circa il 13,47 per cento, con una media di 3,2 milioni di telespettatori, circa gli stessi dell’ispettore Coliandro su Rai2 e quasi la metà dei 5,7 milioni che hanno seguito la fiction “L’onore e il rispetto” su Canale5, con Gabriel Garko. Commenta il professor Francesco Siliato, analista dei media del politecnico di Milano: «I programmi politici non fanno mai grandi ascolti. La vera misura dell’insuccesso di Berlusconi è un’altra: le polemiche che hanno preceduto Porta a Porta hanno spinto moltissimi italiani a passare da Rai1. I contatti unici sono stati oltre 16 milioni, ma il tasso di fedeltà è stato bassissimo, inferiore al 20 per cento». In altre parole: in media lo spettatore di Vespa e Berlusconi non ha resistito più di mezz’ora prima di cambiare canale nonostante, per la prima volta, la presenza di un Porta a Porta in prima serata abbia modificato, oltre al palinsesto di Rai1, anche quello delle altre reti della tv di stato. Non era mai successo quando Ballarò o AnnoZero si erano trovate in concorrenza con speciali di Vespa sul delitto di Cogne o fatti di costume.
«Non parlerei di insuccesso. Trovo già notevole che il 13 per cento dei telespettatori abbia guardato questa sorta di bollettino di regime», ha detto Massimo D’Alema. Anche da Mediaset riducono il peso della controprogrammazione nel determinare la scarsa audience per Berlusconi: «La fiction con Garko ha già un suo pubblico, è alla seconda stagione, e non si poteva certo rinunciare a Dirty Dancing la sera in cui è morto il protagonista, Patrick Swayze».La puntata del talk show Matrix di Alessio Vinci, dedicata alla libertà di informazione, non si sovrapponeva a Porta a Porta, ma è stata soppressa anche se avrebbe catalizzato su Mediaset gli antiberlusconiani che fuggivano da Rai1, completando così il menu che offriva anche Garko e la partita del Milan (e della Juve) su Mediaset Premium per i meno interessati alla politica.
Mentre in Mediaset si godono il successo di audience a spese dell’editore, ennesima dimostrazione che funziona la linea aziendale di escludere la politica dal prime time, a rovinare il clima arriva la notizia: Sky si è rivolta al tribunale di Milano per citare in giudizio la società Rti, la società licenziataria delle concessioni televisive di Mediaset, e Rti, la concessionaria di pubblicità. La ragione è che Mediaset ha vietato a Sky di pubblicizzare le proprie offerte sulle sulIe sue reti in violazione – sostiene il gruppo di Rupert Murdoch – della normativa europea. Replica Mediaset: nel solo 2009 ne abbiamo trasmessi oltre tremila.
In Rai, intanto, cresce la tensione alla vigilia del consiglio di amministrazione di oggi dove si potrebbe decidere il destino di AnnoZero. «So che ci sono dei ritardi sul rinnovo di alcuni contratti, tra cui quello di Marco Travaglio. Siamo in attesa di capire se si tratta di ritardi casuali, che pure in azienda possono verificarsi, oppure di qualcosa di molto grave che si sta verificando», dice Carlo Verna, segretario dell’Usigrai.

17/09/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Ai giornali italiani i dati piacciono solo quando sono ottimisti

Venerdì l’Ocse ha pubblicato il suo “superindice” (CLI, Composite leading indicators) che prevede per l’Italia una fase di «possible expansion».

Come è successo sempre in questi mesi, tra i dati che quotidianamente produce l’organizzazione parigina alcuni vengono isolati e amplificati, diventano una sentenza sullo stato della crisi. «Ripresa, cinque segnali positivi», era il titolo di apertura del Corriere della Sera di ieri. Ancora più esplicito il Sole 24 Ore: «La produzione si risveglia». ll messaggio che arriva al lettore è chiaro: come dice da mesi Berlusconi, la crisi è solo psicologica, anche i numeri lo dimostrano. Però basta leggere dietro le sigle e dentro le tabelle per capire che ci vuole un po’ più di prudenza.

 Intanto il superindice indica «un’informazione qualitativa più che quantitativa», cioè serve a individuare il momento di svolta del ciclo economico (per esempio da recessione a ripresa), non l’ampiezza della correzione. E l’inversione di tendenza non è immediata, ma si verifica nel giro di qualche mese. Osservando le tabelle che indicano l’affidabilità statistica del CLI si nota anche che la deviazione standard di quello italiano (il parametro che misura la dispersione dei valori intorno alla media, più è alto meno affidabile è il dato) è da sempre la più elevata tra tutti i paesi coinvolti nella rilevazione. E ancora: tra gli indicatori italiani scelti per costruire il superindice non ve n’è alcuno direttamente legato all’occupazione. Mentre sappiamo che sarà proprio questo il problema dell’autunno, nonostante il mercato del credito sia migliorato e la produzione industriale stia gradualmente riprendendo almeno per reagire all’esaurimento delle scorte. Come ha avvertito più volte il Fondo monetario internazionale, anche quando l’economia ripartirà ci sarà un gap di almeno sei mesi o un anno prima che gli effetti si sentano sull’occupazione. Quindi la ripresa prevista dal superindice potrebbe essere percepita dai cassintegrati italiani, se va bene, nel 2011.

Tecnicismi, certo, ma che non vengono mai esplicitati, preferendo affidare i messaggi di ottimismo a pochi numeri di immediata – anche se illusoria – comprensione. Altre cifre, invece, raggiungono la prima pagina meno di frequente, come le revisioni al ribasso dell’Istat sull’andamento del Pil: non è ancora sicuro che quest’anno riusciremo a evitare un tracollo di sei punti percentuali, dipende da come andrà l’ultima parte dell’anno. Ma dirlo, e scriverlo, rischia di rovinare il clima.

13/09/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , , | Lascia un commento

Guai a chi tocca Silvio, Piersilvio e Mondadori. Ora parla Marina

Dinasty? La primogenita della seconda generazione berlusconiana parla al “Corriere” senza nominare la sorellastra Barbara, che potrebbe contenderle la guida dell’editoria, mentre continua la trattativa sul divorzio di Veronica Lario, complicata dalle rivelazioni sulle escort. “Fortune” l’ha indicata ieri come la decima donna più potente al mondo.

Marina Berlusconi

Marina Berlusconi

Come si inserisce l’intervista al Corriere della Sera di Marina Berlusconi di ieri nella trattativa sulla separazione di Silvio Berlusconi e Veronica Lario? Se ne conoscono pochissimi dettagli, ma nella lunga estate di Berlusconi, iniziata con Patrizia D’Addario e finita con Noemi alla mostra del cinema di Venezia, il negoziato all’interno della famiglia è continuato.

Nuovi equilibri

Bisogna tener presente questo nel leggere le parole di ieri di Marina sul Corriere, lo stesso giornale che due giorni prima aveva lanciato in prima pagina (e in due paginoni interni) la pubblicazione dei verbali dell’inchiesta di Bari. Dallo scoop sono emersi dettagli sulle serate di Berlusconi e sulle sue frequentazioni femminili, quante donne e quanti incontri, che mettono Veronica nella posizione di forza di una moglie tradita che avrebbe gli argomenti per ottenere un divorzio “per colpa”. «Stiamo parlando di aziende quotate, che creano ricchezza, che fanno informazione e cultura. Non siamo le casette del Monopoli che si prendono e si spostano di qui e di là», ha ricordato Marina nell’intervista, premettendo che non vuole parlare delle rivalità interne alla famiglia, soprattutto tra i due rami (quello dei figli di Veronica e quello dei figli della prima moglie, Carla Elvira Dall’Oglio). L’intervista però entra nel merito, anche se Barbara non viene mai direttamente nominata. «A oggi non c’è nessuna lotta. E, se mio padre è uomo giusto ed equo, non ce ne saranno nemmeno in futuro», aveva detto la venticinquenne Barbara in un’intervista a Vanity Fair all’inizio di agosto, in cui c’era anche un passaggio riferito a Marina: «La passione per l’editoria, e mio padre ha sempre visto in me delle qualità che potevano essere adeguate per questo settore. Lui ha sempre pensato che, quando ne avessi avuto le capacità, mi sarei occupata di Mondadori». Nella sua prima intervista da allora, Marina ha risposto ieri proprio da presidente di Mondadori (ha tante altre qualifiche, tra cui un seggio nel consiglio di amministrazione di Mediobanca e la presidenza di Fininvest nel cui cda siede anche Barbara) rivendicando i suoi successi di editrice, l’ultimo dei quali è il lancio della versione francese del femminile Grazia: «Ai miei due figli, che hanno uno cinque e l’altro sei anni e mezzo, sto leggendo dei libri sulla mitologia greca. E loro ascoltano le storie di Teseo, Achille, Ulisse, con la bocca spalancata. Storie che hanno qualche millennio. Ma che sono in realtà senza tempo, perché sanno soddisfare l’eterno bisogno dell’uomo di emozionarsi, di far correre la fantasia, di conoscere, di capire. Fare l’editore significa saper soddisfare questo bisogno. Ed è per questo che credo sia un mestiere eterno e anche uno dei più complessi e affascinanti». E l’allusione all’eternità del mestiere sembra un’indiretta ma abbastanza esplicita replica a Barbara: nella ripartizione dell’impero berlusconiano alla seconda generazione la Mondadori è da considerarsi già assegnata. A Marina.

Figli e poltrone

Parole che vanno inserite in un contesto complesso. Ben poco è trapelato dalle trattative tra i due rami della famiglia Berlusconi, ma una cosa si è capita: oltre a quello dei soldi, il nodo da sciogliere è quello che riguarda i ruoli operativi. Quanto alla divisione degli asset, per ora è ancora in vigore il cosiddetto “Lodo Chiomenti”, siglato nello studio legale da cui prende il nome nel 2005, prima dell’inizio delle tensioni pubbliche tra Veronica e Berlusconi (mancavano due anni alla lettera a Repubblica sulla serata dei Telegatti e le scherzose proposte di matrimonio a Mara Carfagna, che all’epoca non era ministro). In quell’occasione aveva prevalso la linea Marina-Piersilvio, cioè la divisione “per letti”: il patrimonio, inteso come le holding di controllo dell’impero, veniva diviso a metà. Una – composta da due metà uguali – ai figli di Carla Elvira Dall’Oglio e l’altra, somma di tre quote paritetiche, tra Barbara, Eleonora (che in estate si è laureata in Economia a New York) e Luigi. Poi le cose si sono complicate: Barbara ha iniziato a manifestare l’interesse per la Mondadori, Luigi – oltre a quello per la finanza – ha esplicitato il suo attaccamento al Milan, di cui Marina invece si libererebbe volentieri. Una delle ipotesi che circolano in questi mesi è che nelle stanze degli avvocati si stia discutendo una nuova soluzione di compromesso: nell’ambito della definizione degli equilibri post-divorzio, Marina e Piersilvio restano alla guida di Mondadori e Mediaset, rispettivamente, ma si impegnano formalmente a farsi da parte tra una quindicina di anni, quando Barbara e Luigi (di Eleonora non è chiaro il coinvolgimento) avranno fatto abbastanza esperienza da essere pronti a prendere la guida delle società chiave del gruppo. Il corollario è che a quel punto tanto Marina che Piersilvio avranno voglia e risorse economiche per cimentarsi con altre sfide. Nell’intervista di ieri va infatti rilevato come Marina si sia spesa molto a difesa del lavoro di Piersilvio, nobilitandolo a inventore «dal nulla e in pochi anni di un nuovo business, quello della tv a pagamento», riferendosi alle offerte di Mediaset premium che fanno concorrenza a quello che è diventato uno degli avversari principali della galassia aziendale berlusconiana, cioè Sky di Rupert Murdoch, di cui si occupa sempre più attivamente il figlio James che ha la delega per l’Italia.

Difesa a oltranza

Poi c’è il lato politico. Marina nell’intervista difende la condotta del padre in questi mesi, mentre Barbara, sempre nell’intervista a Vanity Fair era stata più critica, arrivando a dire che «un politico non ha privato». Dice Marina: «Tutto questo ha dato ancora di più a me come figlia la misura della grandezza e della qualità umana di mio padre e dell’enorme distanza tra lui e chi ha cercato di distruggerlo in quel modo». Chi cerca di decifrare tra le righe indizi di una possibile successione dinastica diretta – «Basta con la dinasty», premette lei – da Silvio a Marina, ha trovato qualche spunto nell’intervista, in cui la presidentessa di Mondadori si spinge a fare un’analisi politica della situazione, oltre che da figlia del presidente del Consiglio. Dice all’intervistatore: «Sa da dove tutto è partito? Dal fatto che un’opposizione di cui si sono perse le tracce ha lasciato il suo mestiere, da troppo tempo, nelle mani di alcune testate ben precise e di un gruppetto di magistrati: addio politica, avanti con i dossier, i pettegolezzi, il fango». Nel pomeriggio le agenzie battono la notizia che la rivista Fortune ha inserito Marina tra le 50 donne più potenti nel business (è decima), un mese dopo che Forbes, in un’analoga hit parade, l’aveva indicata come più influente perfino di Michelle Obama. Si rafforza quindi l’immagine di Marina come un’imprenditrice di successo che capisce la politica, erede anche in questo del padre. Ma è troppo presto per trarne conclusioni dinastiche. Per ora la priorità resta superare con meno danni possibile la fase della separazione tra Silvio e Veronica.

12/09/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Quel tetto impossibile ai megastipendi pubblici

 
RINVIO. Il Consiglio dei ministri non approva il tentativo di Brunetta di limitare i salari dei dirigenti statali. Il premier non è convinto, e frena anche il responsabile dell’Economia (che pure si sta battendo contro i bonus nella finanza). Tutto rimandato alla prossima settimana.

Renato Brunetta

Renato Brunetta

Ieri il Consiglio dei ministri ha avviato l’esame del regolamento voluto dal ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ma non lo ha approvato. Tutto rinviato alla prossima settimana e il risultato non è scontato. In seno al cdm ci sono infatti visioni diverse sull’opportunità di questo provvedimento. Secondo alcune ricostruzioni, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non è del tutto convinto del provvedimento e ha invitato alla prudenza, ricordando ai ministri il rischio di crearsi troppi nemici. Non è un grande sostenitore della misura neppure il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che da mesi ha un rapporto complesso con Brunetta, come dimostra la vicenda della scelta del nuovo presidente dell’Istat, con Brunetta che non è riuscito a imporre il proprio candidato (l’economista Fiorella Kostoris), pur spettando a lui la proposta. Alla fine Tremonti ha ottenuto un presidente di mediazione a lui non sgradito, Enrico Giovannini.

Sul tetto agli stipendi dei manager pubblici si stanno sviluppando nuove tensioni. Il progetto di Brunetta è simile a quello del governo Prodi che, nella legge di bilancio 2007, riuscì a bloccare gli stipendi dei dirigenti pubblici al livello di quanto percepisce un primo presidente di Cassazione, circa 290 mila euro. Questa volta il ministro Brunetta si è mosso preparando il terreno: a giugno è entrata in vigore una legge che vincola le amministrazioni pubbliche ad aumentare la trasparenza per quanto riguarda le retribuzioni dei massimi dirigenti che, finora, non erano pubbliche a differenza di quelle dei vertici di società partecipate dallo Stato (cioè dal Tesoro) che invece sono accessibili. Il passo successivo, dopo aver reso omogenei e confrontabili gli stipendi, dovrebbe essere la fissazione del tetto a 290mila euro. «Da cittadino mi auguro che Brunetta ce la faccia, anche se mi farebbe da soffrire perché la mia parte politica non è riuscita a fissare quel tetto», dice Massimo Villone che nella scorsa legislatura, da senatore della Sinistra democratica, era riuscito a introdurre il tetto dei 290mila euro insieme a Cesare Salvi. Ma non ha retto. Prima c’è stato il caso Sanremo: a Pippo Baudo e Michelle Hunziker, i due presentatori del festival, sono stati promessi compensi di 750mila e 1,6 milioni rispettivamente e il blocco degli stipendi metteva a rischio la trasmissione visto che contrastava con i contratti firmati. Dopo molte pressioni, l’allora ministro della Funzione pubblica Luigi Nicolais cede e, con una circolare, accetta che si faccia un’eccezione. Le sue argomentazioni sono quelle che di solito vengono addotte da parte liberale per denunciare l’impossibilità di fissare dall’alto gli stipendi: «L’eventuale applicazione del tetto previsto altererebbe il normale esplicarsi del confronto aziendale, ponendo la società a prevalente partecipazione pubblica [la Rai] in una situazione dei svantaggio alterando significativamente le regole del mercato e della concorrenza».

A dimostrare quanto sia difficile – se non impossibile – l’impresa di fissare questi limiti c’è il fallimento del successivo tentativo: nella Finanziaria 2008 il tetto viene fissato, ma vale solo per le persone fisiche: ne sono quindi esclusi tutti gli artisti televisivi che si fanno rappresentare da società o da agenti terzi. Poi è arrivato il nuovo governo Berlusconi e, nella prima legge Finanziaria triennale firmata da Tremonti, il tetto è stato rimosso in attesa di essere riformulato. La scadenza era lo scorso ottobre, ma ancora il governo non ha trovato una mediazione. «Il tentativo di Brunetta è un po’ tardivo, perché il limite agli stipendi dei manager pubblici c’era già ed è stato proprio il governo di cui fa parte a rimuoverlo», commenta Carlo Podda, segretario della Cgil Funzione Pubblica.

Il nuovo tentativo di Brunetta, che ancora non è stato ufficialmente presentato ma di cui si conoscono le grandi linee, si è già riempito di deroghe ed eccezioni – pare – anche su pressione di Tremonti che deve gestire, oltre ai manager delle partecipate (non toccati dal provvedimento) molti dirigenti nominati dal Tesoro. Per il momento le prime eccezioni riguardano chi allo stipendio pagato dall’ente pubblico di cui è dirigente già riceve una pensione o un’altra retribuzione dallo stesso ente, che non verranno conteggiate per determinare lo sforamento dei 290mila euro. Sono escluse anche le attività con una tariffa professionale e quelle professionali non continuative, proprio come quelle dei megacontratti televisivi che fecero saltare il primo tetto. Oltre a eventuali circostanze eccezionali, giudicate tali dal ministero della Funzione pubblica. Questo è il testo che arriverà al Consiglio dei ministri, la prossima settimana, ma non è sicuro che sarà quello che ne uscirà, visto che lo scetticismo di Berlusconi e Tremonti potrebbe affossarlo.

10/09/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Con Cadbury stanno ricominciando le scalate

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 Con i prezzi di Borsa che corrono – nonostante le periodiche ripresine – era previsione facile dire che sarebbero ripartite le grandi fusioni e acquisizioni che hanno vivacizzato i listini nei primi anni 2000. Meno scontato che le aziende coinvolte sarebbero state di quelle con una forte connotazione culturale, con marchi forti che hanno un’identità spesso anche nazionale. Il primo caso è stato quello dell’operazione della Disney su Marvel Entraitenment: con un blitz – e quattro miliardi – il gigante dell’intrattenimento diretto da Robert Iger si è assicurata il controllo dell’editore di fumetti che detiene i diritti di 5mila personaggi, tutti candidati a diventare protagonisti di redditizie pellicole hollywoodiane. Ma è stata una fusione tutta americana, che magari ha lasciato perplessi alcuni fan che ora vedranno l’Uomo Ragno alle dipendenze di Topolino, ma non è diventata un caso politico.

La vicenda di Cadbury, invece, promette di andare diversamente. Come nel caso precendente c’è un numero uno del settore, cioè la Kraft, che vuole comprarsi uno storico marchio titolare di prodotti radicati nell’immaginario collettivo (britannico), con un forte investimento finanziario che promette notevoli sinergie industriali.

La prima offerta della Kraft è stata di 16,7 miliardi di dollari e già da ieri si dice stia già negoziando al rialzo, con l’amministratrice delegata, Irene Rosenfeld, che vuole completare un processo di acquisizioni iniziato tre anni fa per arrivare a costruire un gruppo con un giro d’affari di cinquanta miliardi di dollari.

Il problema è che vendere Cadbury a Kraft significa per gli inglesi cedere un pezzo della propria identità. Ha scritto David Wrighton, capo dei commentatori economici del Times: «La cosa più sorprendente dell’offerta per Cadbury è che è arrivata soltanto adesso. Il settore del cioccolato e della gomma da masticare è stato un bersaglio delle scalate da quando gli attuali azionisti indossavano i calzoni corti». L’operazione ha un senso finanziario perché nel mondo ormai sembra esserci spazio solo per due giganti dell’alimentare, Nestlé e Kraft che, da quando si è separata dal suo vecchio padrone Philip Morris, ha deciso che il suo futuro sarà tutto nelle sottilette e nei formaggini. I piccoli sono destinati a diventare appendici di multinazionali planetarie.

L’ostacolo principale, quindi, è tutto culturale e riguarda il cioccolato. Gli inglesi non hanno mai perdonato alla burocrazia americana di aver vietato ai prodotti Cadbury di considerarsi “al cioccolato”, nonostante per centinaia di migliaia di consumatori britannici il gusto di cioccolato migliore fosse proprio quello delle barrette Dairy Milk, di Cadbury. Solo che in America non veniva classificato come “chocolate”, ma con il poco attraente epiteto di “vegelate”, perché oltre al burro di cacao – che è ingrediente base del cioccolato tradizionale – l’azienda inglese aggiunge burro vegetale. Cadbury è il simbolo del junk food, il cibo spazzatura, ma come scrivono in rete molti blogger commentando la notizia, si tratta di «great junk food». È anche il simbolo di un’azienda che nella cultura industriale inglese è ricordata nei suoi momenti migliori come in Italia l’Olivetti: quando era gestita dal quacchero John Cadbury a partire dal 1824, fu una delle prime a vietare l’utilizzo dei bambini per la manutenzione delle ciminiere, a dialogare con i sindacati e a concedere giorni di riposo per i lavoratori.

Oggi un’impresa che è rimasta tra le poche industrie manifatturiere di successo nell’economia britannica sempre più terziarizzata, che ancora mantiene impianti in Gran Bretagna, sta per essere comprata dalla Kraft, sembra solo questione di tempo prima che si arrivi a un compromesso sul giusto prezzo. Com’è stato per Disney-Marvel, quindi, probabilmente le ragioni dei bilanci prevarranno su quelle identitarie (anche se i precedenti, dalle acquisizioni di Dr Pepper alla maxifusione Aol – Time Warner non hanno mai regalato troppe soddisfazioni finanziarie). Nonostante le percezioni dei consumatori e, in parte, degli addetti ai lavori, nel settore alimentare le radici sono assai meno importanti che in quello dell’automobile dove le fusioni transnazionali si sono sempre rivelate molto faticose. La stessa Cadbury si è comprata nel 2000 una delle bevande più note di Francia, l’Orangina, il cui marchio non ha subito danni tanto che poi, nel 2006, è stato rivenduto al fondo Blackstone insieme alla Schweppes e a tutto il ramo beverage per ripianare i diebiti. Le bandiere, quindi, non sono un ostacolo insormontabile. Ma da come si svilupperà la vicenda di Cadbury si avranno i primi indizi per capire quale sarà il clima di questa nuova stagione di scalate appena cominciata.

09/09/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , | Lascia un commento

Le ragioni del successo dei cinesi d’Italia

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Chiarelettere ha da poco pubblicato un libro abbinato a un dvd che è il seguito di un suo fortunato saggio, “I cinesi non muoiono mai” di Raffaele Oriani e Riccardo Staglianò , si chiama “Miss Little China”. Il documentario è firmato da Riccardo Cremona e Vincenzo De Cecco e, all’interno di un racconto-cornice si pone l’ambizioso obiettivo di raccontare i cinesi d’Italia. Lo spunto è il concorso per eleggere la più bella tra le miss cinesi che abitano in Italia e – prima sorpresa – si scopre che le ragazze cinesi possono anche essere davvero attraenti. E qui si può cogliere un tentativo degli autori di far passare un messaggio subliminale (esplicitato nel libro che acompagna il documentario): i cinesi sono come noi, amano i concorsi di bellezza, sanno organizzare serate mondane a Venezia, sperano nelle scorciatoie che la società dello spettacolo promette – e raramente mantiene – ai giovani che non vogliono ridursi come i loro genitori. Ma se fosse solo questo, “Miss Little China” sarebbe assai poco ambizioso e perfino un po’ qualunquista. L’interesse del film deriva soprattutto dalle differenze che emergono.

 I cinesi lavorano. Tanto, tantissimo, sempre e anche bene. Il meccanismo lo spiega la madre di una delle miss in gara (in un italiano perfetto): i cinesi non possono mai dire di no, quando un imprenditore italiano ha bisogno di una lavorazione intermedia, di solito nel tessile, e ha scadenze impossibili da rispettare, si rivolge a un’azienda cinese. Che è disposta a lavorare anche di notte e – in quanto cinese – deve offrire un prezzo inferiore a quello dei concorrenti italiani. Non si tratta dei laboratori clandestini raccontati da Roberto Saviano in “Gomorra”, ma di imprese regolari che riescono a fare quello che sembra impossibile ai tanti imprenditori italiani che lamentano il declino industriale: continuare a lavorare in settori dove il margine di profitto è basso. E dove bisogna lavorare duramente, di notte, di domenica e a Natale. Cremona e De Cecco chiariscono anche uno dei misteri che circonda le comunità cinesi: come fanno a trasformarsi da dipendenti a padroni nel giro di pochi anni, superando ostacoli burocratici e ambientali che bloccano molti italiani? Semplice, i cinesi non spendono, risparmiano. Mandano soldi in patria e accumulano finché non decidono di investire e fare il salto. E questo è vero soprattutto per la prima generazione, per i genitori delle miss in concorso. I figli, invece, stanno cercando il proprio percorso: il documentario racconta di quelli che trovano un business nel fare da raccordo tra le imprese italiane e il più ricco mercato di sbocco esistente, dove un miliardo di consumatori cinesi anela i prodotti del made in Italy.

Altri non hanno quello spirito di iniziativa. Come uno sconsolato ragazzo che parla con un marcato accento modenese e racconta i suoi insuccessi lavorativi seduto su una panchina della periferia di Modena: non è disposto a lavorare giorno e notte per vent’anni come i suoi genitori, sogna la vita dei suoi coetanei ma non può averla perché i soldi sono pochi e – da cinese senza qualifiche – non riesce ad essere assunto anche in una terra dove restare disoccupati è difficile.

Il lavoro dei due autori (e della squadra che li supporta) è apprezzabile soprattutto perché esplora un terreno vergine, il racconto dell’immigrazione senza il vincolo del politically correct o le fobie securitarie di stampo leghista. Eppure, alla fine, resta l’impressione di non avere capito tutto, che qualcosa continui a sfuggirci, i cinesi restano un po’ misteriosi anche se più simpatici (nonostante una certa malinconia). Ma forse anche questo è un pregio di “Miss Little China”, perché stimola gli spettatori ad approfondire e i giornalisti a indagare.

08/09/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , , | Lascia un commento

Quali sono i progetti di Tremonti sulle banche?

Questo è il mio editoriale apparso sul giornale di domenica, in ritardo causa festeggiamenti di compleanno.

 

Giulio Tremonti

Giulio Tremonti

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti deve spiegarsi meglio. Che cosa intendeva dire ieri quando, a margine del G20 finanziario di Londra, ha affermato che le banche italiane non devono essere troppo grandi e che «questo punto andrà risolto»?

In Italia ci sono solo due grandi banche, Unicredit e Intesa Sanpaolo, nate dopo fusioni accolte come l’ingresso della finanza italiana nell’età adulta.

Sia la banca guidata da Corrado Passera sia quella di Alessandro Profumo sono società quotate in Borsa e reduci da un anno di crisi che ha eroso prima il valore del titolo e poi gli utili: il ministro auspica forse una cura spezzatino e il ritorno agli istituti locali di una volta? Le sue parole possono legittimare negli osservatori questo sospetto e, visto che quello che dice il ministro dell’Economia è tenuto in una certa considerazione da chi lavora nella finanza, potrebbero anche avere conseguenze sull’andamento delle azioni. Il triennio di fusioni che ha portato l’Unicredit a inglobare Capitalia – operazione fatta a carissimo prezzo e non priva di effetti collaterali ma di cui nessuno nega la rilevanza sistemica – e la milanese Intesa a unirsi con la torinese Sanpaolo, rendendola meno sabauda e più nazionale, è stato considerato una tappa fondamentale nella marcia verso la modernità del sistema bancario. Dalle banche pubbliche a gruppi transnazionali, con una divisione de facto dei compiti: a Unicredit quello di sfruttare le opportunità della globalizzazione espandendosi a Est e a Intesa il ruolo di banca di sistema, partner del Governo nelle operazioni (redditizie) politicamente sensibili. Tremonti vuole tornare indietro? E se sì, come? Il breve revival delle nazionalizzazioni è passato, intervenire ora su due società che sono solo in parte italiane nella proprietà sarebbe percepito come un’intollerabile prevaricazione più che come una rivendicazione della supremazia della politica. Ma certamente il ministro non intendeva questo.

È più probabile che la sua fosse una sollecitazione – come quelle che sono venute in passato anche da Confindustria – a prestare maggiore attenzione alle esigenze del territorio, conservando quella flessibilità di approccio che ha sempre contraddistinto gli istituti che conoscono i loro clienti e sono partecipi delle loro vicende imprenditoriali. Un appello sempre utile anche se forse è troppo presto per trarre conclusioni da questa crisi: gli imprenditori raccontano di piccole banche locali, da sempre al loro fianco, che all’improvviso hanno voltato loro le spalle perché non potevano più rischiare nulla, mentre i grandi gruppi – più burocratici ma più solidi – grazie alla dimensione e alla diversificazione del rischio continuavano a garantire, magari a prezzo maggiorato, credito e servizi.

Quanto all’altro punto toccato da Tremonti, l’eccessiva influenza delle grandi banche sulla politica, risulta un po’ controintuitivo: nell’ultimo anno è stato il Tesoro a ingerirsi – secondo molti anche con qualche diritto – nella gestione aziendale, con i Tremonti bond, sollecitando moratorie sui debiti e accordi con le piccole e medie imprese, allestendo osservatori sul credito per mettere sotto tutela i direttori di filiale, attaccando publicamente i banchieri – come ha fatto ieri sui bonus eccessivi – quando pensava se lo meritassero. Ma non si è avuta la percezione che le grandi banche condizionassero la politica economica. A meno che Tremonti non alludesse a un altro tipo di banca che, questa sì, è sempe più attiva ed efficace nel dettare l’agenda e influenzare il dibattito politico. Cioè la Banca d’Italia di Mario Draghi.

08/09/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , | Lascia un commento