Stato&Mercato

L'economia del "Fatto Quotidiano". Il blog di Stefano Feltri

Non sarà che CDB si è pentito dell’addio alla finanza?

Duello d’estate. Per ora Alessio Nati non lancia l’Opa ma compra. L’editore di “Repubblica” sale quasi al 20 per cento e presto la terza Opa potrebbe doverla lanciare proprio lui. Forse CDB si è pentito di aver annunciato l’addio alla finanza.

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Ieri il mercato ha assistito a un’altra puntata della lunga, e sempre più strana, agonia di Management&Capitali. Negli episodi precedenti: Carlo De Benedetti, editore di Repubblica, crea nel 2005 un fondo di investimento per rilevare e ristrutturare imprese in difficoltà; quattro anni dopo il progetto è deludente, CDB lo mette in vendita, restituisce quasi tutti i soldi in cassa agli azionisti; due suoi soci, la famiglia Segre (con la società Mi.mo.se) e Giovanni Tamburi (con Second Tip) laciano due offerte pubbliche d’acquisto per ottenere il controllo del fondo impegnandosi a comprare azioni dagli altri azionisti a un prezzo di poco superiore a quello di mercato. Appena le due opa diventano efficaci, il 13 agosto, l’Ingegnere rivela di aver comprato fuori mercato più del due per cento del capitale, a carissimo prezzo: sedici centesimi per azione invece di dodici (quanto offriva la più generosa delle due opa).

Lunedì si è mossa la Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa, che ha chiesto lumi a De Benedetti e ad Alessio Nati, marito della figlia di primo letto di CDB, che a luglio sembrava pronto a lanciare una terza opa. E la mossa di De Benedetti sembrava funzionale a preparargli il terreno, facendo capire che la società (con alcune partecipazioni di dubbio valore e 40 milioni di euro in cassa) valeva più di quanto le due opa la valutavano. Un po’ tutti si aspettavano quindi che oggi Nati scoprisse le carte, lanciandosi ufficialmente alla conquista di M&C. Gli investitori ne erano così sicuri che la sua azienda, Investimenti&Sviluppo, stava volando in Borsa, nonostante tutti sapessero che l’eventuale investimento sarebbe stato a titolo personale e non tramite I&S.

Invece no. Con un breve comunicato, Nati ha spiegato che «allo stato non è sua intenzione promuovere un’offerta pubblica di acquisto sulle azioni della società Management&Capitali S.p.A.». Alla quale però resta interessato. Nello stesso comunicato si legge di un «acquisto ai blocchi» fatto il 14 agosto e che diventerà operativo il 21 agosto (cioè ha comprato titoli che ancora non sono però fisicamente in suo possesso) con cui Nati sale al 5,3 per cento di M&C «e non esclude di effettuare prossimamente ulteriori acquisti». Sorpresa numero due: dall’aggiornamento della Consob sulle partecipazioni rilevanti si è scoperto ieri che Carlo De Benedetti, sempre attraverso la sua finanziaria Romed con cui aveva fatto gli acquisti precedenti, è salito al 19,639 per cento (comprando a prezzi altissimi) del capitale, oltre un punto in più rispetto all’ultimo shopping che lo aveva portato dal 16 al 18 per cento. Ricapitolando: De Bendetti si sta comprando – a un prezzo gonfiato dall’attenzione che si è creata intorno a M&C – azioni della società che lui stesso ha messo in vendita, insieme al parente Alessio Nati. Le due opa in corso (a cui si può aderire, cioè vendere le proprie azioni ai contendenti, entro il 15 settembre) sono state spazzate via dalle mosse di CDB: nessuno venderà a 12 centesimi per azione se l’Ingegnere continua a comprare a oltre 16. Ieri il titolo, che è sceso del cinque per cento, si è assestato sui 17 centesimi.

Le domande che gli osservatori si pongono ora sono due: che succederà? E perché l’editore di Repubblica sta facendo qualcosa di così difficile da interpretare? Alla prima si può provare a rispondere, più complicato con la seconda. Lo scenario che si delinea è il seguente. In tempi brevi, appena si voterà su qualcosa o si prenderanno decisioni strategiche per il futuro di M&C, risulterà evidente che De Benedetti e Nati agiscono in squadra: già ora, sommando le loro quote, si arriva sopra il 25 per cento. Tenendo conto che M&C ha ricomprato il 13 per cento di azioni proprie e che Nati ha detto che salirà ancora, quasi certamente i due – insieme – oltrepasseranno la soglia del 30 per cento del capitale. Quindi saranno costretti, come imposto dal testo unico della finanza, a lanciare un opa. Alla Consob spetterà il compito di accertare che i due effettivamente si muovano in coppia e che, quindi, procedano all’opa obbligatoria. Non è dato sapere come si muoverà la famiglia Segre, da sempre compagna di avventure finanziarie dell’Ingegnere: probabilmente lo sosterrà anche in questa ultima fase della partita. Con Giovanni Tamburi, il capo della Second Tip, i rapporti sono invece deteriorati in modo irrimediabile: a maggio CDB ha sciolto il patto di sindacato che lo legava a Tamburi senza rispettare il preavviso richiesto di sei mesi, troncando una collaborazione con la Tamburi Investment Partners iniziata un paio di anni fa, nel momento più difficile per M&C in cui serviva un partner con esperienza nel settore del private equity. Tamburi, probabilmente, dovrà quindi rassegnarsi a non poter ottenere il controllo di M&C sul quale aveva progetti imprenditoriali: se e quando CDB lancerà la sua opa, si limiterà a rivendergli a 16 o 17 centesimi le azioni che ha comprato a 11, consolandosi con la plusvalenza.

Il perché di tutto questo è chiaro solo a CDB. In ambienti finanziari circolano un paio di spiegazioni. La prima: De Benedetti non era soddisfatto della piega che stava prendendo l’eutanasia di M&C, forse si è accorto di averlo dato per finito prima del tempo e piuttosto che vederlo rifiorire nelle mani di Tamburi è disposto a riprenderselo tutto a caro prezzo anche se non sa bene cosa farsene. La seconda teoria è che CDB si sia un po’ pentito di aver annunciato a gennaio, in una conferenza stampa con tutta la famiglia, la sua progressiva uscita di scena dalla finanza. Doveva conservare solo il potere sul business editoriale. Ma forse la finanza continua a esercitare troppo fascino sull’uomo che, in un altro secolo, sognò addirittura a comprarsi il Belgio con la Société Générale de Belgique.

19/08/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Le tante ragioni del pessimismo: perché la crisi non sta finendo

Anche ieri sono arrivati segnali dall’economia che invitano a essere ottimisti: la produttività dei lavoratori americani è cresciuta nel secondo trimestre del 6,4 per cento, il risultato migliore da sei anni. Il petrolio è salito ancora, sopra i 73 dollari al barile, e le Borse continuano, con qualche frenata occasionale come quella di ieri, ad andare bene dopo che perfino alcuni zombie, come le agenzie di mutui americane nazionalizzate da George Bush, Fannie Mae e Freddie Mac, hanno cominciato a fare utili. Tutti vogliono essere ottimisti: è di due giorni fa il sondaggio di Kpmg secondo cui le imprese inglesi e italiane sono quelle più fiduciose nella ripresa.
Forse ha ragione lo storico di Harvard Niall Ferguson, che sul Financial Times ha paragonato Barack Obama a Felix il gatto: come il personaggio dei cartoni animati, il presidente americano continuerà a essere fortunato e tutte le potenziali bombe su cui è seduto – a partire da un deficit che nel 2009 sarà di 1800 miliardi di dollari – verranno disinnescate dal provvidenziale ritorno della crescita. Ma i numeri – in cui tanti si esercitano in questi giorni a intravedere sprazzi di sereno – invitano alla prudenza. E lo ha detto ieri proprio Obama: «Non siamo ancora fuori dal bosco» (che in America equivale al nostro tunnel).

Prendiamo le ultime stime del Fondo monetario internazionale: la crescita del Pil mondiale dovrebbe essere negativa (-0,9) nel 2009 e positiva (2,5) nel 2010. Calcolando l’interesse composto, alla fine dell’anno prossimo il mondo sarà più ricco dell’uno per cento circa rispetto allo scorso gennaio. Ma questo non vale per i paesi più industrializzati: per loro la differenza sarà un -4 per cento secco. Ora le previsioni cominciano a essere riviste al rialzo, ma sarà cruciale quanto in fretta miglioreranno le cose.

Negli Stati Uniti, per esempio, c’è il problema del pagamento dei sussidi di disoccupazione: le politiche del lavoro sono affidate nella quasi totalità ai singoli stati federati. E molti di questi, nel tempo delle vacche grasse, non hanno messo da parte nulla e quando è arrivata la crisi hanno cominciato a indebitarsi. Secondo i calcoli della fondazione Pro publica, solo 13 stati su 50 hanno le finanze pubbliche in grado di sostenere il numero di disoccupati causato dalla recessione. Gli altri hanno dovuto prendere soldi in prestito, a partire dalla California (2,6 miliardi di dollari) fino allo stato di New York (1,3 miliardi). Ora il tasso di disoccupazione ha cominciato a ridursi, ma resta l’incognita se i miglioramenti saranno abbastanza rapidi da evitare il collasso alla finanza locale americana. Oggi terminerà la riunione del Fomc, il comitato della Federal Reserve che decide la politica monetaria, dove si sta discutendo della richiesta da parte di alcuni membri del Congresso (su tutti il potente democratico Gary Frank) di espandere i pacchetti di sostegno alla finanza. In particolare il Talf, Term Asset-backed securities Loan Facility, per sostenere il mercato di titoli derivati costruiti su prestiti agli studenti, finanziamenti delle carte di credito e rate per il pagamento dell’auto. Perché c’è il sospetto diffuso, anche se nessuno può averne la certezza, che appena la stampella pubblica verrà tolta, l’economia (e il settore del credito) torneranno nel caos. Come il mercato immobiliare, dove l’aggiustamento al ribasso dei prezzi – dopo gli eccessi della bolla speculativa scoppiata nel 2007 – continuerà ancora per almeno un anno.

Ma non sono certo solo problemi americani. Secondo gli analisti di RGE, la società dell’economista Nouriel Roubini, tra le grandi economie industrializzate solo le condizioni della Francia (e in parte della Norvegia) invitano davvero all’ottimismo: gli ammortizzatori sociali francesi, dal salario minimo alla rigidità del mercato del lavoro, sono stati combinati con politiche anticrisi dall’effetto immediato che hanno fatto il loro dovere. Mentre in altri Paesi sono state finanziate infrastrutture la cui costruzione deve ancora cominciare. Le grandi economie emergenti, invece, sono crollate alla stessa velocità di quelle occidentali a cui erano agganciate dalla globalizzazione ma ora, secondo le stime del Fondo monetario, stanno iniziando a uscire dalla crisi più in fretta.

La grande speranza è ovviamente la Cina: gli economisti che per anni hanno spiegato tutti gli squilibri del mondo con la teoria del savings glut (i cinesi consumano troppo poco e risparmiano troppo, immobilizzando ricchezza), ora sperano che lì nasca una nuova domanda di beni e servizi tale da compensare quella scomparsa – forse per sempre, di certo per un po’ – in Europa e America. Gli ultimi dati dicono che in luglio la produzione industriale è salita del 10 per cento anche se le esportazioni crollavano del 23, segno che il mercato interno è più solido di quello internazionale. Ma il settore finanziario è ancora un rebus, forse all’inizio di una nuova bolla sulla Borsa di Shanghai tornata ai livelli del 2007, prima della crisi. Ma l’ottimismo che suscita una crescita attesa del 9,4 per cento del Pil nel 2009 deve essere temperato, secondo RGE, dalla constatazione che nessuno dei problemi strutturali è stato affrontato nell’anno della crisi: troppi crediti nei bilanci delle banche di dubbio valore, eccesso di risparmio, eccesso di capacità produttiva per un mondo che consumerà meno.

 

12/08/2009 Posted by | Articoli, Il Riformista | , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento