Stato&Mercato

L'economia del "Fatto Quotidiano". Il blog di Stefano Feltri

L’articolo che tutti dovrebbero leggere nelle scuole di giornalismo

informazione

 

 

Fabio Martini per il quotidiano “Europa”

Sta diventando un fuoco incrociato. Mai come ora tutti, ma proprio tutti, sparlano dei giornalisti italiani e del loro modo di accostarsi alla politica. Il “Financial Times” arriva a scrivere che Berlusconi ha potuto costruire il suo strapotere anche grazie alla timidezza della stampa nostrana.

Il neo-direttore del Tg1 ha pronunciato in diretta la sua lezione deontologica, asserendo che sui media c’è troppo gossip. Per il capo del governo i giornalisti italiani sono tutti di sinistra, mentre per il capo dell’opposizione fanno poche inchieste. Tutti sparlano di noi, ma noi giornalisti non parliamo. Facciamo finta di nulla, aspettiamo che passi.

Le uniche voci sono quelle che contrappongono la stampa di destra al gruppo “Repubblica-Espresso”. Aleggiano querele. Non sfugge a nessuno la pulsione gregaria dei giornali che spalleggiano il premier, ma è serio il rischio insito in questa “guerra civile”: la definitiva affermazione di un bipolarismo dell’informazione, con due tifoserie contrapposte.

Più che un rischio, una tradizione: i giornalisti italiani non hanno mai avuto un grande orgoglio professionale, l’indipendenza non è mai stato il connotato prevalente. Per ragioni arcinote, a cominciare della storica assenza di editori “puri”. Ma si fa presto a prendersela con i padroni. O con i politici, che saranno sempre invadenti. O ricattatori, come il Berlusconi sulla pubblicità.

Ma proprio perché i giornalisti sono sotto tiro, l’unico modo per recuperare credibilità sarebbe provare a mettersi in gioco. Parlando – una volta almeno – di noi. Dei nostri limiti e non di quelli degli altri. Dei nostri trucchi. Dei nostri vizi. Della nostra vocazione consociativa.

 

Partendo dal tratto più originale di tutti: in Italia sui giornali (per non parlare degli “spazi autogestiti” nei telegiornali) la politica occupa uno spazio abnorme, non paragonabile a quanto accade nella stampa francese, tedesca, spagnola, inglese, americana. Ed è proprio in questo enorme spazio che si dispiega un gioco tutto nostrano: il “gioco” della lobby.

Dalle nostre parti c’è un enorme equivoco che si porta dietro tutti gli altri: credere che in Italia i giornali ambiscano ad essere un quarto potere. In realtà direttori, editoralisti e cronisti – senza ammetterlo neppure a se stessi – fortissimamente aspirano ad essere una lobby. Lobby che sta dentro al gioco, che consiglia, che condiziona. Che esulta pubblicamente – a sinistra come a destra – quando un leader ha adottato la linea del giornale.

Il “gioco” della lobby, o delle lobby contrapposte, passa attraverso un racconto vivacissimo e colorato, che spesso però si accompagna ad una invisibile adulterazione di fatti e personaggi. Ecco i titoli con l’estrogeno che annunciano guerre che nessuno intende combattere. Ecco l’inflazione dei retroscena: spesso polpette preparate da un oste contro l’altro, col cronista che si limita ad assaggiarle, quasi mai verificandone gli ingredienti.

 

Ecco il diluvio di dichiarazioni, che raramente sono “notizie”. Ecco le interviste: paginate soporifere che servono ai politici per scambiarsi i loro messaggini, quasi mai illuminate da una domanda penetrante, vera, per provare a scoprire se il re è nudo. Quella domanda non c’è, perché se la fai – ed esigi una risposta – la prossima volta potresti essere ricusato.

I politici, si sa, aiutano a far carriera. Non solo alla Rai. Ecco i “virgolettati” attribuiti a Berlusconi o a Franceschini, troppo spesso ricostruiti ad occhio, o inventati. Il politico non smentirà: può far comodo, far credere che abbia detto quelle cose. Anche se non le ha mai dette. Con l’effetto che buona parte di quei retroscena somigliano oramai a delle favole, alle quali non crede più nessuno.

Ecco i tanti giornalisti-hooligan che tifano per il proprio cannoniere, non per la propria professione. Ma l’operazione più sofisticata di tutte è un’altra ancora. Tutti i giornali del mondo hanno tanti modi trasparenti per esprimere la propria linea politica, dagli editoriali fino alla titolazione. Da noi si è diffuso un sistema occulto: condizionare la politica, invisibilmente manipolando l’informazione quotidiana.

Attorno ad un obiettivo politico prestabilito – destabilizzare o santificare un leader – si organizzano retroscena e interviste, si creano dal nulla personaggi, eroi per un giorno destinati ad essere presto scaricati. L’obiettivo è quello di costruire un “fatto” compiuto che più tardi sarà oggetto di un puntuto editoriale.

Negli anni scorsi caposcuola del “genere” è stato “Il Corriere della Sera”. Esemplare, tra i tanti, il tormentone della sinistra radicale proclamata come egemone nel governo Prodi. Un’egemonia di cui non si erano accorti, mentre la vivevano, i leader politici della sinistra. E che più tardi, a quanto pare, sfuggì anche agli elettori di quei partiti.

Naturalmente non mancano i direttori tosti e i cronisti liberi, le stagioni felici di questo o di quel giornale, le inchieste penetranti. Tanto, ma ancora troppo poco per essere credibili: quando i politici denunciano i nostri vizi, proprio loro così prepotenti, finiscono per avere qualche ragione.

 

Certo, non ci si libera da un giorno all’altro dal consociativismo, male oscuro dell’informazione anche nella Seconda Repubblica. Una stagione che 17 anni fa era iniziata in modo eloquente: della corruzione politica che stava uccidendo la Prima Repubblica, i giornali non si erano accorti, non potevano accorgersi. L’hanno scoperta soltanto quando se ne è occupata la magistratura. E da quel momento, per un lungo periodo, si sono limitati a decantarne le inchieste. Con lo spirito gregario di sempre.

16/06/2009 Posted by | Articoli | Lascia un commento

L’Istat rischia il commissariamento se non trova un nuovo presidente

 Il mandato del presidente dell’Istat Luigi Biggeri è scaduto 16 giorni fa. Se non si trova l’accordo per un successore entro un mese, l’istituto di statistica sarà commissariato. E a poche settimane dalla scadenza, ancora niente è stato deciso. Il 15 aprile il Sole 24 Ore scriveva in un editoriale non firmato: «Questo giornale ha un sogno: che il Governo metta un annuncio sui giornali, cercasi presidente Istat, (…) tutti gli interessati mandino il loro curriculum al ministero e un Search committee raccomanderà il prescelto al ministro».
Un sogno che si è realizzato solo a metà, perché il direttore generale – anch’esso da nominare – verrà scelto con una “call”, cioè una selezione basata sul curriculum dei candidati. Ma per il presidente è di nomina politica, il primo passaggio è la segnalazione di un nome da parte del ministero della Funzione pubblica, cioè Renato Brunetta, poi inizia un iter procedurale che si conclude con la firma del presidente della Repubblica e l’approvazione della Corte dei conti. Dal ministero non commentano, ma sembra che il candidato di Brunetta sia il professor Carlo Andrea Bollino, oggi presidente del Gestore del Sistema Elettrico, ordinario e preside di corso di laurea all’università di Perugia. Rocco Tritto, del sindacato Usi-Rdb (lavoratori della ricerca) pensa che oltre a Bollino ci sia rimasto un solo altro nome plausibile, quello dell’economista Fiorella Kostoris, che ha già guidato l’Isae (ente di ricerca legato al Tesoro),la quale sarebbe sostenuta da Giulio Tremonti. Ma c’è chi dice che i rapporti tra il ministro dell’Economia e la professoressa della Sapienza – che pure ha le credenziali accademiche giuste – non siano tali da giustificare l’ipotesi.
Altre fonti interne all’Istat confermano: «È tutto aperto, i candidati con un profilo accademico più tipicamente statistico sono ancora tutti in corsa, da Enrico Giovannini dell’Ocse a Giovanni Girone dell’università di Bari». Giovannini sarebbe la scelta ideale se il governo cercasse uno statistico di prestigio internazionale, lasciando Parigi per Roma il professore avrebbe anche una cattedra che lo aspetta a Tor Vergata. Ma la carica di presidente dell’Istat avrà un ruolo politicamente sensibile (anche più del solito) nei prossimi mesi e non sarà solo il curriculum a determinare la scelta. Spetterà all’Istat definire, infatti, il successo o il fallimento dell’approccio dell’esecutivo alla crisi economica, individuare il momento della ripresa, stimare l’impatto della recessione sul sistema economico. «Il vero discrimine è se vogliono qualcuno con la schiena dritta o qualcuno più collaborativo», dice una persona interessata al dossier.
Biggeri lascia l’Istat dopo otto anni che hanno visto cambiare quattro presidenti del Consiglio, la lira diventare euro, il dibattito sul declino italiano lasciare spazio a quello sulla fine del capitalismo, un censimento nel 2001 con le successive polemiche sui dati (soprattutto nel Lazio). «La presidenza dell’Istat non dovrebbe essere di nomina politica, al massimo dovrebbe spettare al presidente della Repubblica», sostiene Michele Ainis, che insegna diritto pubblico a Roma Tre. Quando ha scritto sulla Stampa un pezzo dal titolo “L’Istat? Meglio l’orscopo” ha ricevuto decine di mail dai dipendenti dell’istituto che si dicevano d’accordo con le critiche. Il successore di Biggeri erediterà un Istat che soffre la concorrenza dell’Isae (a cui il governo ha affidato il compito di calcolare la nuova versione dell’inflazione programmata), la scarsità di risorse che spinge a ricorrere sempre più alle interviste telefoniche (giudicate poco rappresentative e non sufficienti) e alle prese con la procura della Corte dei conti. L’Istat di Biggeri non ha riscosso quasi mai le sanzioni comminate a chi non completa i questionari obbligatori, poi il governo Prodi ha cambiato la legge per fare un cosiddetto “condono statistico”, ma la Corte dei conti si è mossa lamentando un danno per lo Stato di 191 milioni di euro. L’udienza è il 12 ottobre, e Biggeri dovrà risponderne anche se non sarà più in carica. E le cose potrebbero complicarsi: se verrà sollevata una questione di legittimità costituzionale il caso finirà davanti alla Consulta.

16/06/2009 Posted by | Articoli | 2 commenti